Mangochi (Malawi), 11 Marzo 2010

I sogni che fanno fiorire il deserto

I sogni, un tempo, erano divine rivelazioni dettate nel sonno dal Signore, per infondere speranza nei mortali.
Sognò Adamo “qualcuno che gli potesse stare accanto” e, quando si svegliò dal suo torpore, trovò Eva, sogno fatto carne.
Sognò Abramo una discendenza più numerosa delle stelle del cielo e lui, avanzato negli anni, sentì Dio come seme vivo nel seno morto di Sara. E concepì Isacco.
Sognò il patriarca Giacobbe una scala che congiungeva la terra e il cielo e quando si svegliò, consacrò la terra quale santuario in cui Dio si allea con l’uomo, inaudita premessa dell’incarnazione. E pure quella notte di incubo, in cui lottò con “l’Angelo del Signore”, in quella polvere che umanizzò Dio e divinizzò lui, Giacobbe, il risveglio dal sonno, benché doloroso per quel pugno all’anca, quella notte fu foriera di benedizioni: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele – Dio è la mia forza – perché hai lottato con il Signore”.
Sognò Giuseppe lungo tutta la vita e molto soffrì a causa dei suoi sogni, ma pure grazie ad essi trionfò: lui schiavo, divenne viceré d’Egitto, Salvatore di questa terra e della sua.

E tutta la Bibbia è un giardino trapunto di sogni rivelatori della divina misericordia. Nel passato l’uomo sognò con il suo Signore. Ora, “è mutata la destra dell’Altissimo?” è Lui che non sogna più con noi, o siamo noi incapaci di sintonizzarci sui suoi sogni?
Tace Dio quando i profeti si rifiutano di rendere note le loro visioni e i maestri di vita fuggono nel deserto senza figli spirituali. Quando i vecchi amici non suonano più la chitarra al chiarore della luna, ma, stanno barricati in casa, a fare l’inventario dei sogni svaniti. Quando io -per pigrizia o per paura? – non cerco più nuove conoscenze, quali concreti volti del Vivente. Quando non mi lascio penetrare da uno sguardo che implora un po’ di attenzione, come…
Come un momento fa, all’aeroporto di Amsterdam, in attesa del volo per Lilongwe(Malawi). Passeggiavo leggendo una stupenda pagina del breviario: un discorso di S. Ambrogio, sulla necessità di fuggire dal mondo, per volare verso il Signore. Mi sembrava che questi mi parlasse, e poiché ciò non capita ogni giorno, volevo stare concentrato su quello che la Chiesa propone il sabato della seconda settimana di quaresima. Ma non potevo fingere di non vedere un sessantenne, che prendeva tutte le scuse per fare la pulizia nell’angolo dove mi ero rifugiato. Capelli più bianchi dei miei. Faccia lunga. Occhi chiari, tipici degli abitanti del nord Europa. Lineamenti forti, come quelli dei protagonisti dei film di Bergman: “Il settimo sigillo”; “Luci d’inverno”; “ IL silenzio”(?).
Fu lui a fare il primo passo: “Et Omnipotentem Deum etiam pro me ora” (“E prega anche per me l’ Onnipotente”). È la frase con la quale il vescovo consacrante termina il rito dell’ordinazione diaconale e presbiteriale. Non parlava né l’inglese né il francese, ma, ricorrendo alla lingua della Chiesa, mi confessò che anche le sue mani erano unte col sacro crisma. “Tu es sacerdos in aeternum”, gli sussurrai, pensando a quarant’anni fa, quando, la vigilia di San Giuseppe, io, steso davanti all’altare, invocavo su di me la divina misericordia e l’imposizione delle mani del mio vescovo.
“In aeternum”, sussurrò quel povero uomo, con gli occhi lucidi. Aveva lasciato il ministero non per una donna, ma perché Dio non era più presente nei suoi sogni. Poi… è subentrata anche la sua attuale sposa che, pur amando, è un continuo rimando al tempo in cui officiava nel santuario. Proprio come quel sacerdote dell’antica alleanza che, esiliato, se ne andava triste, oppresso dai nemici: “Dov’è il tuo Dio?”
Mi confidò che non riusciva più a pregare e gli piacque la mia risposta: “La nostalgia di Dio, della sua casa, delle tante messe celebrate è un prolungamento delle tue preghiere di un tempo come lo sono le tue lacrime che il Signore conserva negli otri suoi, lassù nel cielo”.
“Mi perdonerà il Signore?”. Ed io: “Lui è più desideroso di perdonare di quanto lo siamo noi di peccare”.
E lì, in quell’angolo dell’immenso aeroporto di Amsterdam – terra che vide la nascita al cielo di mia sorella Elisa – quell’uomo si inginocchiò, dopo avermi supplicato: “Dimitte, pater, omnia peccata mea”.
Usando l’antica formula, scandii le parole: “ In quantum possum et tu indiges, ego te absolvo a peccatis tuis”. Quindi gli presi le mani e, baciandole, gli sussurrai: “In aeternum!”. E gli promisi che per tre ore, volando sopra il Sahara, avrei pregato per lui, perché coltivasse il sogno che il deserto può fiorire.
Mentre stavo imbarcandomi, mi portò un vasetto con tre tulipani di quella terra che vide realizzarsi il sogno della giovane mamma Elisa, di essere posta nella bara, vestita di bianco, quale sposa del Signore della vita.

Valentino