Ponte Nossa, 27 Febbraio 2010

Come un gabbiano cullato dal vento

“Io pongo davanti a te la vita e la morte. Scegli”. Così ci sfida la liturgia della prima domenica di quaresima, dell’anno C. Liturgia che una grande parrocchia solennizza, preparandola con “il triduo dei morti”, quale eco del mercoledì delle ceneri: “Sei polvere e polvere ritornerai”. Devo parlare a tutte le messe: sette tra sabato e domenica. La più caratteristica quella animata da un bel numero di ragazzi, per i quali improvviso un’omelia dialogata, coinvolgendoli con tante domande, confidando nello Spirito che soffia come vento, dove vuole e come vuole.

L’immagine del vento mi spinge a raccontare la storia di: “Jonathan Livingstone Seagull ”, il gabbiano che desidera solo volare per il gusto di volare. Volare cullato dal vento. Volare non per cercare cibo o per turismo sessuale, ma per perdersi nell’Infinito e trovare se stesso.

Ho davanti a me simpatici ragazzi che hanno vissuto con gioia il carnevale e che da me sentono che la Chiesa non è gelosa della loro felicità, della loro mascherata e del loro divertimento ma, per aumentare la gioia di vivere, propone loro scelte radicali: “Pongo davanti a te la vita e la morte”. Addita ideali sublimi, voli pindarici, sfide come quelle vissute dal gabbiano Gionata , completamente diverso dai suoi compagni, lo Stormo Buonappetito. Stormo che lo esilia. Lo manda nel “deserto”. Gli impone una morte che per lui si cambierà in pienezza di vita.

Ed ecco comincia il dialogo, mirante a dare un volto a tre nomi da valorizzare durante la quaresima: desiderio, deserto, Dio. Un desiderio che renda bella la mia eternità, perché che altro sarà il paradiso se non un desiderio reso eterno? Deserto che il mio sogno fa fiorire, perché il sogno ad occhi aperti colora la realtà con quella speranza che è un anticipo di paradiso in terra. E Dio che fa la grande differenza tra chi crede e chi non crede, perché “con Lui o senza di Lui, tutto cambia”.

Con l’entusiasmo del Gabbiano maestro desidero far volare i miei piccoli fratelli ai quali chiedo che cosa massimamente desiderino. Probabilmente l’Infinito li spaventa. Si accontentano della play station e della Xbox.

Poveri ragazzi. Chi ha mortificato i loro sogni? Chi ha tarpato loro le ali? Chi le ha spezzate?

Anche nel racconto di Richard Bach è bene inserita la storia di un gabbiano che aveva un’ala spezzata. Anche lui, dopo tanti anticipi di fiducia, ha il coraggio di vincere il suo limite e, a forza di incoraggiamenti e di tentativi, riconquista il cielo e la perduta libertà.

Questi ragazzi davanti a me sono potenziali acrobati nell’arte del volo. Basta che si fidino di Dio e di un maestro in grado di testimoniare che non basta allenarsi al volo perfetto, occorre allenarsi a capire il segreto della bellezza, della bontà e dell’amore, il segreto della vita nascosto nella morte, il segreto della Bibbia che addita il deserto quale luogo privilegiato per imparare ad amare. Proprio come ha detto Benedetto XVI, nella lettera ai giovani all’inizio della quaresima, dopo aver scritto l’enciclica “Deus Caritas est”, là dove non esita ad affermare che Dio li ama di un amore erotico e li chiama nel deserto perché vuole fare l’amore con loro. Domanda tutto, perché vuole donare tutto e rendere bella la vita che è tale quando i giovani fanno sì che “ l’amore unificante sia la vostra misura; l’amore durevole sia la vostra sfida; l’amore che si dona la vostra missione”.

Il deserto. Lì si apprende l’arte d’amare che esige un uscire da sé ed affrontare quell’esodo che rese popolo un branco di beduini, fuggiaschi dall’Egitto: “L’amore è «estasi» – dice ancora benedetto XVI – ma estasi non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio”.

Il deserto. Lì si affrontano le tre tentazioni che riassumono tutto il travaglio di questo nostro povero cuore: prosperità, potere e popolarità. Possono comprendere questi ragazzi che di solo pane l’uomo muore? Che il potere ubriaca e genera quella strana forza di gravità che ci fa ripiegare su noi stessi, diventando egoisti, soli e angosciati? Che la popolarità acceca, facendoci concentrare sul nostro ombelico e svuotandoci, come se non contasse più il nostro essere, perché vittime dell’apparire?

Il deserto. Lì risuona la sfida: “Ecco, io pongo davanti a te la vita e la morte”. Sfida che turba questo nostro cuore fatto di luce e di cenere. Cenere che la Parola farà vivere, come nel giardino dell’Eden, là dove la “ruah”, il respiro, il soffio, il vento di Dio ti fa innalzare alle sublimi vette dalle quali si vede con occhi nuovi il mondo e dove si prova l’ebbrezza di abbandonarsi come un gabbiano cullato dal vento.

Mentre mostro l’ostia consacrata a quei giovani “Gabbiani”, prego perché essi si rendano conto d’essere nati per la pienezza di vita, siano capaci di scavalcare tutto ciò che intralcia il loro volo, siano assetati dell’unica vera legge che conduce alla libertà chi ha il coraggio di nutrire un grande desiderio, chi scopre il privilegio di stare con Dio, chi sta quaranta giorni nel deserto, per vederlo fiorire.

E prima di recitare il “Padre nostro”, rivolgendomi agli adulti, mentre li elogio per avere dato vita alla vita, diventando genitori, li supplico di mettersi al servizio della vita, non distruggendo con una mancata educazione tanti sacrifici fatti per allevare i loro figli. Ad essi abbiano il coraggio di proporre grandi ideali, perché se ai giovani si chiede poco danno niente, mentre se si chiede molto, danno tutto.

Probabilmente le mie parole lasciano trasparire la tristezza che sento al pensiero di quanto sia difficile essere genitore. Tristezza che un chierichetto coglie e cerca di scacciare al momento dello scambio della pace: “Padre, batti un cinque!”.

Ah, se i gabbiani non invecchiassero!

Valentino