Ponte Nossa, 12 Febbraio 2010

Così vivevo i miei diciott'anni

1963. Ultima notte di carnevale. In seminario i miei colleghi fanno una festa consona a giovani che si preparano al presbiterato. Giovani che vogliono diventare “presbiteri”, parola che significa: “i più anziani” … Ed io, con il rigore che mi sono imposto fin dalla più giovane età di diventare il prima possibile “il più anziano”, anziché partecipare alla prevista ricreazione, mi ritiro in cappella a meditare alla fioca luce della lampada poste davanti al tabernacolo. Sicuro che nessuno mi senta, suono l’organo ripetendo la colonna sonora di “Exodus” e sognando quella “patria”che sarà la vera dimora dei credenti “quando sarà passata la fugace ombra di questo mondo”. Poi prego per quei giovani che dietro la maschera e un assordante rumore velano e ubriacano un’esistenza non vera e vivono una vita vana.
Al mattino seguente mi reco in cattedrale per la funzione delle ceneri. Tutti i seminaristi in fila, in silenzio, con tanto di veste nera  e di cappello nero in testa, sotto un cielo nero, si preparano a sentirsi dire dal vescovo: “Ricordati che sei polvere e polvere ritornerai”. A ciò alludono anche quei coriandoli che calpesto pensando: “Vanità delle vanità e tutto è vanità”. Così vivo i miei diciotto anni.
1973. Dopo un anno d’insegnamento nel seminario di Ibadan (Nigeria), dopo la moltitudine di parole dette agli oltre cinquecento seminaristi, nelle tre, quattro cinque ore d’insegnamento giornaliero, ho davanti a me tre mesi di silenzio e mi concedo un periodo di grazia: il deserto del Sahara. Grazia non priva delle tre tentazioni alle quale pure Cristo era stato sottoposto: “prosperità, popolarità, potere”. Delle tre, la più scabrosa per me è la terza: “Buttati giù dal pinnacolo”. In altre parole: “Fatti vedere. Fatti conoscere. Non seppellirti in un seminario africano. Va a Roma ad insegnare e a parlare in televisione”.
Sabbia. Sabbia. E solo sabbia. E il vento che sposta le dune e crea disegni sulla sabbia. Disegni che, in vano, cerco di decifrare.
Il Cielo tace. Parla, invece, il Tentatore: “Stai buttando via la tua vita. Tanti anni di studio. Proposta di carriera rifiutata. Talenti sprecati. E una vita sterile. Senza figli morirai completamente. Ramo secco, morto ancora prima del tempo. Agli occhi del mondo che conta tu vali poco, una cicca o poco più!”.
2010. Questo nuovo carnevale è un ennesimo dono che il Signore mi fa per analizzare la mia vita, prima di entrare nel sacro rigore della quaresima. Dono che passa attraverso la lettura di S. Giovanni Crisostomo: “Come al finir dell’inverno  torna la stagione estiva e il navigante trascina in mare la nave, il soldato ripulisce le armi e allena il cavallo per la lotta, l’agricoltore affila la falce, il viandante rinvigorito si accinge al lungo viaggio e l’atleta depone le vesti e si prepara alle gare, così anche noi, all’inizio di questo digiuno, quasi al ritorno di una primavera spirituale, forbiamo le armi come i soldati, affiliamo la falce come gli agricoltori, e come nocchieri riassettiamo la nave del nostro spirito per affrontare i flutti delle assurde passioni, come viandanti riprendiamo il viaggio verso il cielo e come atleti ci prepariamo alla lotta con lo spogliamento di tutto”.
S’impone un esame di coscienza: che cosa ho fatto di tutte le grazie ricevute? Dov’è l’ardore dei giovani anni allorché passavo le notti in preghiera? Ho fatto fiorire il deserto? Anche se sono rimasto fedele a Dio, non l’amavo di più da giovane? E quella tentazione adombrata dal pinnacolo del tempio?
Domande da non prendere alla leggera, viste anche alla luce dell’appellativo “vecchio rimbambito” che mi è stato rivolto pochi giorni fa.
E mentre mi pongo queste domande, arriva, provvidenziale, la telefonata di una suora, madre generale di una congregazione dedita soprattutto al riscatto delle bambine di strada, che mi dice: “Stavo viaggiando in treno. Nello scompartimento venne un giovane che, appena mi ha visto, mi ha coperto d’insulti, buttandomi addosso tutte le parole più sporche di questo mondo. Mi sono sentita una “meda dé rut” (letamaio). Per quel giovane sono una donna di strada. Ma per Cristo sono la sua sposa. Per lui valgo niente, ma per Dio valgo il sangue di suo Figlio”.
“Raglio d’asino non giunge in cielo”, dice la sapienza popolare. Non dispiace più di tanto  a noi, uomini e donne di fede, essere insultati. Dispiace il fatto che esistano persone che, mentre vorrebbero fare della vita un continuo carnevale, hanno dentro di sé un’immensa  sofferenza che esprimono con tanta aggressività nei nostri confronti, perché  il nostro abito nero li obbliga a pensare, a mettersi in crisi, a confrontarsi con il Crocefisso. Per loro non ci rimane altro che un supplemento di preghiera in questa quaresima, perché, “volgendo lo sguardo a Colui che hanno trafitto”, scoprano che  ciascuno di loro, agli occhi del Padre, vale la vita stessa di Cristo. E così non buttino via i loro diciotto anni.

Valentino