Ponte Nossa, 4 Novembre 2009

"Le cose in cui credevo mi han deluso"

Nel primo pomeriggio entro in chiesa e sono contento di essere solo. “Che bello non trovare nessuno”, dico a me stesso e subito percepisco di aver detto una cosa molto stupida: lì c’è Cristo che m’aspetta! Guardo al grande crocifisso che troneggia sull’altare e mi sembra che abbia le braccia sproporzionatamente grandi. Forse lo scultore del seicento voleva indicare che il Figlio di Dio  vuole abbracciare tutti, con il suo amore misericordioso. Vuole abbracciare tutti, anche chi, in questi giorni, fa la campagna per rimuovere il crocifisso dalle scuole.
Ai piedi di Gesù ci sono sei grandi giare vuote. Vuote come il mio spirito in questo momento in cui soffro perché Dio non sembra ascoltare le mie  preghiere per tante persone, sofferenti per la salute dell’anima o del corpo.   E s’insinua il dubbio: “Sarà ancora in grado Cristo di cambiare l’acqua in vino? Ma se le giare non sono riempite fino all’orlo, come potrà compiere il miracolo? E’ Lui che vuole farsi pregare o sono io che, invecchiando, assomiglio a quel vino che si converte in aceto, anziché diventare sempre più buono?”.
Mentre m’arrovello in questi pensieri, entra in chiesa una signora anziana che mi conosce bene, poiché quando sono in Italia, libero da  impegni, celebro l’eucaristia domenicale in questa parrocchia. “Che bello – mi confida – vedere un prete in fondo alla chiesa a far compagnia al Signore!”. Le chiedo di mettersi nel primo banco  a pregare anche  per le mie intenzioni. Bella la risposta: “Sì posso farlo. Ma mi ascolterà? Sono piena di dolori, glieli offro per la tua missione. Spero che non faccia il sordo, almeno con te!”.
Dalla porta laterale entra una signora di mezza età. Mette la testa tra le mani e emette pesanti sospiri. Li interpreto come un’implicita invocazione ad un mio  intervento, per cui mi siedo accanto a lei, sussurrando: “Sospiro acerbo dei provetti giorni…”.  E ricevo una riposta pure essa in endecasillabi: “Le cose in cui credevo m’han deluso”. E inizia un’interminabile litania di lamentele anche verso il Signore che, nell’età dell’amore, mette in cuore  sogni irrealizzabili nell’età matura.
La vita mi ha insegnato che non devo preoccuparmi di rispondere a tutti i problemi che mi vengono posti: l’importante è che io ascolti.  Il “paziente” si cura da sé, grazie alla logoterapia e alla grazia che il Signore fa a chi crede e sta in chiesa a emettere sospiri e ancora ha fiducia nel prete, nella sua capacità di mediazione, di intercessione, di alzare la mano benedicente.
Problemi su problemi.  E mentre la signora si sfoga, guardo alle sproporzionate braccia del crocifisso. Vedo che anche le sue spalle sono ben messe. Su di esse c’è posto anche per la croce di questa povera donna, delusa dalla vita. Delusa dal fatto d’aver visto tante sue aspirazioni svanire come rugiada ai primi raggi del sole. Svanire, come la scia lasciata dalle nave sulle onde del mare. Situazione che il libro del Qohelet riassume con la parola pregnante: “Evel”, vanità. “Evel” o “Ebel”… con riferimento ad Abele, il primo figlio dell’uomo,  la cui bellezza e bontà suscitarono l’invidia omicida del fratello Caino.
La signora lascia la chiesa sollevata per lo sfogo fatto davanti al Santissimo e ad un ministro della Chiesa. Io resto lì, nella casa del Signore di nuovo vuota, con il mio spirito che prima era vuoto ed ora ha un problema in più: “Le cose in cui credevo mi han deluso”.
E tornano alla mia mente le parole della canzone tante volte cantata con diversi giovani, nel luoghi più disparati, soprattutto durante le messe celebrate in montagna: “Avevo tanta voglia di viaggiare…/ Tu mi dicesti: vai ed io partii./“Son vivo”, dissi allora ad una donna,/a te, amico mio, pensaci tu./ Prendimi per mano, Dio mio,/guidami nel mondo a modo tuo…/La strada è tanto lunga e tanto dura/ però con te nel cuor non ho paura. /Io sono ancora giovane, Signore,/ ma sono tanto vecchio dentro il cuore./ Le cose in cui credevo mi han deluso,/io cerco solo amore e libertà./ Prendimi per mano, Dio mio…”.
La delusione… E’ il risultato dello sbaglio di centrare i propri sogni su realtà effimere, di aspettarci cose grandi da esseri deboli, di porre tutta la nostra speranza nell’essere umano, anziché in Dio. La Bibbia categoricamente afferma: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo”. Appoggiarsi ad una persona ritenendola una divinità e attendersi da lei quella grazia, quell’amore che solo il Signore può dare equivale allo stolto che s’appoggia ad una canna fessa che, spezzandosi,  gli trafigge il fianco.
La delusione è il frutto dei nostri innamoramenti mai convertiti in amore: ci si innamora di un particolare – della fossetta che ad arte si abbozza accanto alle labbra – e… si sposa tutta la persona. E quando ci si abitua alla fossetta, si grida alla delusione. Stolto è dire: “Ti amo perché…”: quando viene meno il perché, crolla anche l’innamoramento. Dio non ci ama per le fossette del nostro viso, ma perché illogico è l’amore.
La delusione è il risultato dell’accecamento del peccato originale che ci impedisce di vedere le cose belle e ci focalizza sul negativo. Adamo ed Eva “si accorsero d’essere nudi”. Cominciarono a vedere sporche realtà da Dio create belle. E Caino fece lo stesso con Abele: non vedeva la bontà del fratello, ma provava invidia nel percepire che Dio gradiva i suoi sacrifici. E la storia si aggrovigliò attorno alla perversione dei figli degli uomini incapaci di vedere la bellezza del creato.
Umanamente parlando la vita dà a tutti motivi di sofferenza, di “delusione”: ad uno ad uno se ne vanno gli amici; la persona amata nella giovinezza mostra i suoi limiti; i genitori invecchiano, s’ammalano e muoiono; i fratelli litigano per un palmo di terra avuta in eredità…
Solo chi s’allena al distacco dalle cose umane e guarda la realtà con fede trova serenità nello scoprire che è solo non chi perde gli amici, ma chi non ne cerca di nuovi. Trova pace chi si rende conto che mai si ama invano: è comunque un privilegio l’avere amato chi ora non bussa più alla nostra porta. E’ contento che apprezza i colori dell’autunno: chi vive l’invecchiare dei genitori come una grazia, pago di poter restituire anche solo una piccola parte a chi ha dato tutto, assieme alla vita. E anche riguardo ai fratelli litigiosi si rasserena chi sa che “il giusto pecca sette volte al giorno” contro il Signore, sempre disposto a perdonare e tornare da capo.
Mentre medito su questa realtà, alzo ancora una volta lo sguardo al Crocifisso dalle lunghe braccia. Lui m’invita a rinnovare il proposito di perdonare al fratello settanta volte sette; di lodare Dio per il privilegio di servire chi mi ha amato gratuitamente, senza alcun perché; di pregare per quegli amici che, ad uno ad uno, se ne sono andati… a mettere in pratica quanto ho loro insegnato sul bisogno di amare tutti, con un amore radicato in Dio. Come alberi piantati lungo il fiume, con fronde verdeggianti e con gustosi frutti, ognuno nella proprio posto e nella propria stagione. Ognuno a lottare contro la delusione, confrontandosi con le sproporzionatamente grandi braccia del Crocifisso, emblema di una civiltà che aspira a trasformare il limite in grandezza.

Valentino