Ponte Nossa, 15 Settembre 2009

La tenerezza in vista della morte

Dopo un periodo d’intenso lavoro, accetto con piacere l’invito a trascorrere questo sabato sera in un paese in cui ho cercato di seminare la parola di Dio, celebrare eucaristie ed esercitare di tanto in tanto il ministero sacerdotale, per sentirmi anch’io, anche solo parzialmente, padre spirituale di una specifica comunità. E’ la festa del villaggio. Sono invitato a cena con tante persone che vedrei volentieri. Sono previsti i fuochi d’artificio…

Ma ben altri “fuochi” m’attendono, appena sceso dalla mia vettura: una persona m’aggredisce, nascondendo dietro apparenti battute spiritose, un’anima che soffre, probabilmente perché a lei non sono dati quegli spazi gratificanti che si aspetterebbe dalla vita. Cerco di sorridere, ma niente cambia. Cerco di elogiare e peggioro la situazione. Cerco di guardarla con tenerezza e in cambio ho un’altra sferzata. Rimonto sulla mia vettura e torna a casa, chiedendomi come mai la gente riesca a trasformare in sofferenza quanto potrebbe essere motivo di gioia. Perché tanta aggressività? Perché far pagare agli altri le proprie ferite?

In famiglia ho appreso che l’umanità ha bisogno di balsamo per lenire i dolori e d’unguento profumato da versare sui piedi, come quella peccatrice ha fatto nei confronti di Cristo. Da mia madre ho imparato a chiedere perdono a chi mi offende, perché, se una persona arriva a farlo, anche se io non ho delle colpe specifiche nei suoi confronti, vuol dire che soffre, non fosse altro perché non ha ciò che Dio mi ha dato, senza alcun mio merito.

Chiederò perdono a quella persona. Avrei voluto farlo subito, ma non me ne ha dato il tempo. Ora solo mi resta la possibilità di meditare su quell’olio profumato versato sui piedi del Maestro, nella speranza di potere anch’io arrivare ad essere tenero nei confronti di chi aggredisce me o quanti amo.

Quel profumo aveva un nome specifico: nardo. Aveva nel mondo ebraico un particolare significato: la fedeltà. Era costosissimo: quella povera donna ha dovuto lavorare un anno intero per procurarselo. Cristo ha apprezzato il gesto di quella peccatrice, nonostante le rimostranze di Giuda: “Perché tanto spreco? Si poteva vendere quel profumo per trecento denari e darli ai poveri”. Trecento denari: dieci volte di più di quanto lui prenderà, vendendo Cristo.

Ma il Signore gradisce quel nardo: “Lasciatela fare, in vista della mia sepoltura”. La tenerezza in vista della morte. Siccome io ogni giorno muoio, siccome tu mi puoi mancare da un momento all’altro, io ti amo adesso. Non pospongo al domani quella tenerezza che fa vivere, che libera l’amore, che permette di condurre un’esistenza qualitativamente diversa rispetto a chi non è tenero, non chiede e non dona amore, murato nella paura di tutti e di tutto.

La tenerezza esplode in chi sa familiarizzare con la morte, appunto perché fa sua la dipartita di una persona particolarmente cara. Con lei, in un certo qual modo, è già morto. Con lei già vive eterno. Perché colui che hai amato e se ne è andato in cielo, non è là dove si trova, ma dove tu sei. Per questo motivo vado ripetendo a tutti una frase che era solita ricordarmi mia nonna Maria: “I morc i tegn in pé i vif” (I morti tengono in piedi i vivi).

Vivi in Cristo che ci ripete:”Sono risorto e ora sono sempre con te e la mia mano ti sorregge. Ovunque tu possa cadere, cadrai nelle mie mani e sarò presente persino alla porta della morte. Dove nessuno può più accompagnarti e dove tu non puoi portare niente, là io ti aspetto per trasformare per te le tenebre in luce”.

I nostri morti sono nella gioia, in una festa senza fine, ma, come Gesù, hanno conquistato questo traguardo passando attraverso la fatica e la prova, affrontando ciascuno la propria parte di sacrificio per partecipare alla gloria della risurrezione. Fatica e prova che a nessun vivente è risparmiata.

Ma appunto perché la vita per tutti riserva tante sofferenze – frammiste a indicibili gioie, per chi sa vedere – perché dobbiamo farci del male? Perché ignorarci? Perché mutare in aggressione quell’affetto che una cattiva educazione non lascia emergere o trasforma in veleno?

Non siamo teneri verso gli altri, perché non lo siamo con noi stessi. Non ci amiamo perché non perdoniamo a noi stessi quel peccato che Dio ha abbondantemente lavato in ogni nostra confessione, in ogni eucaristia, in ogni sguardo che abbiamo levato al cielo. Non cresciamo in sapienza e grazia perché non permettiamo a Dio di essere tenero con noi e d’insegnarci la tenerezza: sentimento espresso in uno sguardo stupito che coglie una persona nella sua muta invocazione d’affetto.

Valentino