Ponte Nossa, 2 Luglio 2009

Julius Nyerere, Michael Jackson e Liliana Cosi

A metà degli anni settanta era ancora bello vivere in Africa. Si respirava l’entusiasmo dell’indipendenza, la gioia di diventare un’unica realtà con tutti i fratelli Neri della terra, la contagiosa speranza di vedere un’alba nuova in cui a tutti fosse concesso il privilegio d’appartenere ad una nobile razza. L’orgoglio della negritudine.
Si profilavano all’orizzonte capi di stato desiderosi di portare pace ai loro paesi e creare gli Stati Uniti dell’Africa: Leopold Sengor, Kwame Nkrumah, Julius Nyerere. Avevo incontrato quest’ultimo nel 1977, al Festival dell’arte e della cultura nera, tenutosi a Lagos (Nigeria). Di fronte al ripetersi dello slogan: “I am black and proud” (Sono orgoglioso d’essere nero), mi aveva sussurrato: “Più gridiamo questo slogan, più sottolineiamo il nostro complesso d’inferiorità”.
L’anno successivo andai ad intervistarlo in Tanzania. Assistette con tanta devozione, seduto in mezzo ai bambini, alla messa che celebrai nella cattedrale. Poi m’accolse nella sua piccola casa, nella periferia di Dar es Salaam. Mi pose tante domande sulla morale cattolica, in particolare sulla dottrina sociale della Chiesa. Poi, dopo l’intervista, mi fece partecipe delle sue convinzioni religiose e del suo sogno: che l’Africa abbracciasse il messaggio evangelico, soprattutto il discorso della montagna, poiché vedeva in esso l’antidoto alla tentazione di cadere nelle trappole del benessere europeo. La povertà: prima beatitudine. Il Socialismo africano: unica speranza del Continente Nero.
A questo incontro con Nyerere ho pensato appena ho udito la notizia della morte di Michael Jackson. Su una personalità così complessa, e ricca di contrasti, si possano fare solo delle domande, non si possono sentenziare giudizi, il più triste dei quali sarebbe di vedere in lui una persona angosciata, inseguita dai suoi incubi.
Che infanzia ha vissuto? Quali valori gli sono stati trasmessi? Che persone ha incontrato da giovane? Perché non accettava il colore nero della sua pelle? Che volto aveva quell’armonia che cercava così disperatamente? Chi ispirava la sua musica? E quelle sublimi intuizioni: “Heal the world, make it a better place, for you and for me and the entire human race, there are people dying, if you care enough for the living, make a better place for you and for me” ? E altre ancora: “I’m starting with the man in the mirror, I m asking him to change his way… if you wanna make the world a better place take a look at yourself“…
Abbiamo un tesoro incommensurabile in vasi di creta, dice S. Paolo. Lo valorizza chi incanala le sue forze verso ideali che non possono essere quelli proposti da una logica mondana. Chi – l’ho ripetuto all’inverosimile – trova la persona giusta al momento giusto, un maestro di vita che s’accorga di te. Chi fa un’esperienza forte di valori umani e divini ( a volte basta una frase detta al momento opportuno, e tutto cambia nella vita) . Chi, in fine, risponde positivamente a quei tre o quattro “Sì” dai quali dipende tutta la nostra vita.
Poiché la storia non si fa con i “se”, ci resta solo da immaginare come le eccezionali doti di Michael e le sue ispirazioni artistiche avrebbero potuto fare di lui non solo un essere felice, ma anche un autentico benefattore di questa umanità che, oltre al piacere e all’utile, si mobilita per fare grandi cose, quando è attratta dal bello e dal buono. Julius Nyerere avrebbe potuto aiutare Michael ad accettare il colore delle sua pelle e ad abbracciare la follia evangelica. Da essa avrebbe trovato quella serenità e pace che , invano, ha cercato sui più prestigiosi palchi della terra, vittima della solitudine che circonda quelli che soccombono alle tre tentazioni contro le quali anche Cristo lottò nel deserto: prosperità, popolarità, potere.
Talento, musica, danza sono doni che una persona riceve dall’alto e tornano a lei solo quando sono messi al servizio della comunità, con la coscienza che si possiede veramente solo quello che si dona. Per l’ennesima volta ho sperimentato questa verità incontrando la scorsa settimana Liliana Cosi, che ho consultato per la coreografia di “Mostrati Madre”.
Chi la volesse conoscere bene, legga la sua opera autobiografica: “Etoile. La mia vita” (Edizioni Città nuova). Un’esistenza vissuta danzando. La volontà di usare la danza come linguaggio di bellezza e di armonia che portano a Dio, senza mai nominarlo. Una vita resa affascinate dalla scoperta di Dio, approfondito grazie ad una semplice frase sentita da una focolarina: “Noi cerchiamo di vedere Gesù nel prossimo”. E un’intuizione rafforzata in una chiesa, come se Cristo le chiedesse: “Perché vieni solo qui a cercarmi , se io sono in tutti?”.
Dio in tutti. Un Dio sperimentato come Amore. Un amore crocifisso. Un Amore più grande della morte.
Mi sono confrontato con l’esperienza di fede di Liliana Cosi e subito l’ho sentita amica e sorella, grazie alla comune vocazione di cercare quella bellezza che salva il mondo e ha il volto del Crocefisso, del Risorto.
Con estrema signorilità e pacatezza mi ha dato la sua visione del mondo, mettendo in evidenza solo le cose belle. E quando era costretta a vedere delle ombre, sapeva avvolgerle di luce. Come quando accennò all’Induismo. Riportò la frase di una sua amica, seguace di questa religione: “Vivendo l’amore cristiano che esige il dar la vita per i propri amici, che esige la mia ‘morte’ per amare sempre l’altro, sento di non aver più bisogno di credere alla reincarnazione perché, in un certo senso, già risorgo ogni volta che così amo.”
Esperienza di fede, maestro di vita, dono all’umanità dei propri talenti: questi i presupposti per stare bene nella propria pelle, accettarsi come siamo, trasformare i nostri limiti in utilità a quelle perone che Dio ci mette accanto come angeli, come sua immagine, come specchio di quella bellezza che è splendore di Verità.

Valentino