Ponte Nossa, 26 Maggio 2009

«Lo scafandro e la farfalla»: elogio della debolezza

«Spesso facebook si trasforma in un luogo virtuale d’incontro dove assumere una nuova identità, dove cercare quelle briciole d’amore che non si riescono a trovare nella quotidianità… forse per timidezza, forse per preconcetti…»(Simone)
«… la nostra generazione quasi incapace di divertirsi se non tramite l’utilizzo di droghe o alcool che ti permettono il lusso di essere imperfetto e ti permettono anche di dare affetto» (Luca).
A questi due amici e a quanti mi hanno telefonato per chiedermi che cosa possa indurre una persona a togliersi la vita nel fiore degli anni – il trentenne di cui ho parlato – rispondo invitando alla lettura del libro di Jean- Dominique Bauby: «Lo scafandro e la farfalla», pubblicato nel 1997. Libro che amerei definire come l’elogio della debolezza e come la sintesi del pensiero di S. Paolo: «Quando sono debole, allora sono forte».
Libro che mette in luce quell’immortale poesia e bellezza che spesso sono racchiuse nell’anima ed emergono nel momento del dolore: nel nero della disperazione può scattare una scintilla di grazia che illumina i colori della vita.

Jean-Dominique Bauby si risveglia dopo un lungo coma in un letto d’ospedale. Scopre un’atroce verità: il suo cervello non ha più alcun collegamento con il sistema nervoso centrale. Totalmente paralizzato, ha perso l’uso della parola oltre a quello dell’occhio destro. Gli resta solo il sinistro per poter lentamente riprendere contatto con il mondo. Dinanzi a domande precise ( compresa la scelta delle lettere dell’alfabeto ordinate secondo un’apposita sequenza) potrà dire “sì” battendo una volta le ciglia oppure “no” battendole due volte. Con questo metodo riuscirà a dettare un libro. L’occhio del protagonista diventa la soglia che permette al pesante e inerte scafandro del suo corpo di liberare la farfalla del pensiero.
Solo l’immaginazione e la memoria possono far evadere Dominique dal suo corpo che porta in sé un anticipo di morte e renderlo libero e orgoglioso di poter scrivere il suo libro, monologo, che da diario intimo, a tratti ironico e per questo non patetico, si trasforma nel primo vero dialogo che è in grado di intrattenere con chi lo ama e gli è vicino.
Il protagonista non ha nulla, proprio nulla che apparentemente possa dirsi umano, eppure nel limite, nel dolore riscopre quanto non aveva apprezzato nella ricchezza e nel successo come capo redattore di una famosa rivista francese. Trova un rifugio in sé e nel mondo che ora contempla nuovo, con quell’unico occhio spaventoso, simile a quello che si può immaginare potesse avere Caino.
Nel dolore dimostra di essere più vivo di molte persone che, viste dall’esterno, sono in salute, hanno tutto, mentre in realtà sono vuote e morte dentro.
In un corpo incontrollabile e rigido come una bara può albergare uno spirito disciplinato nel volere, libero nel sogno.
Grazie a queste intuizioni penso mi sia lecito parlare della debolezza come luogo di apprendimenti vitali e risorsa fondamentale per giungere alla maturità del cuore, alla libertà dello spirito, alla scoperta di valori umani e divini. La fragilità non è una maledizione. Il limite non è una condanna. E il peccato non distrugge la mia dignità: una volta confessato, diventa trampolino di lancio verso nuove vette alle quali ci chiama la parola di Dio. Il deserto, il silenzio, l’abnegazione, il digiuno e la croce sono forze misteriose nelle nostre mani: fanno capire che cosa è l’uomo. Danno un supplemento di anima a noi che soffriamo e a quanti ci stanno accanto, portando il loro contributo in umanità e sviluppando potenzialità inaudite e impensabili, prima del loro incontro con la nostra sofferenza.
In una situazione di debolezza e di abbattimento S. Paolo incontra il Risorto e nasce come uomo nuovo. Non dimostra la sua frase: «Quando sono debole, allora sono forte», ma ci garantisce che, da quando si è affidato alla logica della croce, la sua vita ha avuto un senso di pienezza mai prima provato. Sulla via di Damasco è stato annientato l’uomo vecchio, sicuro di sé, ma insoddisfatto. Ora la morte di Cristo e sua –«Io sono morto con Cristo» – è diventata la resurrezione della nuova umanità alla quale lui, malato, quasi cieco, sempre e ovunque perseguitato, con intima gioia, porta una salvezza integrale, del corpo e dello spirito.
L’esperienza di Paolo aiuta a purificare la ragione dall’idolatria: il successo ad ogni costo, l’essere belli, eternamente giovani, godere sempre di sensazioni nuove e fortissime, avere continuamente grandi aspettative da chi ci sta accanto. Chi vive con noi, a cominciare dal partner, cresce se accolto nella propria vita, se condivide il perdono, se ogni giorno progetta e costruisce il proprio rapporto non su criteri efficientistici, ma su quell’amore che è valido quando fa proprio la logica della croce.
Mass media, droga, alcool per potersi permettere il lusso di essere imperfetto e riuscire a chiedere amore? La logica evangelica costa meno e dà effetti più duraturi.

Valentino